mercoledì 7 marzo 2012

L’attacco all’Iran è deciso E Obama non può dire no



Il presidente cerca di rimandare l’intervento militare ma assicura fedeltà e aiuto a Tel Aviv. Che però preme per agire contro la minaccia atomica

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È finito, in realtà, il tempo in cui «tutte le opzioni sono sul tavolo», come ha detto Obama. È finito alla conferenza annuale dell’Aipac, American Israel Public Affairs Committee, a Washington.
Obama e Lee Rosenberg
Obama e Lee Rosenberg
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Obama lo può ripetere, e l’ha fatto di fronte a un pubblico di tredicimila amici d’Israele bollenti, la cui passione cercava di spingere senza troppo successo a dichiarazioni d’impegno definitivo: ma sì, Obama ha risposto, ma l’ha fatto volteggiando alla sua maniera spesso inconsistente, spesso fascinosa, come un torero nella corrida, piroettando, sventolando una bandiera di speranza di fronte a un pubblico immenso che voleva comunque amarlo e farsi amare perché sa che sarà lui il prossimo presidente, di nuovo.
E lui che voleva farsi amare e votare, più volte ha assicurato di avere a cuore Israele, di essere fedele più di ogni altro presidente al patto non scritto fra lo Stato ebraico e gli Usa, di avere difeso lo Stato ebraico all’Onu, di averlo sempre aiutato militarmente. E il patto c’è, sicuramente, ma non riguarda ancora e forse non riguarderà mai il toro che scalpita giù nell’arena, il toro nero di nome Iran che si prepara allo scontro.
Invece per Israele il tempo è qui, è giunto, la dead line sembra non potere essere più allontanata: per Netanyahu, come si è inteso bene nel discorso notturno, con pochi e forzati sorrisi di vero affetto per la sua alma mater americana e pochi cenni a Obama, il contrasto fra chi vive nell’immediata ombra della minaccia e chi ancora vuole permettersi di stare a vedere segnerà il limite, il confine imposto dalla storia.
Per il primo ministro d’Israele non si tratta di far politica, ma di vivere, e la grandiosità dei parati di gioia, colorati, risonanti di musiche, per i due grandi ospiti dell’Aipac, le grida di affetto, la clacque che spingeva i due a gettarsi l’uno nelle braccia dell’altro, apparivano tanto volenterosi quando persino un po’ tristi di fronte a un destino che puzza di rischio mortale, di sangue prossimo venturo. Obama ha rivendicato la sua totale, indiscutibile devozione all’amicizia immortale fra Israele e gli Usa con l’approvazione amorosa di uno Shimon Peres così affettuoso e così politico nei suoi complimenti (il «presidente più amichevole verso Israele che si sia mai visto» ha detto) e soprattutto nel capire che comunque Obama è già il vincitore delle prossime elezioni.
E Bibi l’ha messo alla prova: gli ha raccontato i quindici anni di osservazione spietata della preparazione del potere atomico dell’Iran nel silenzio del mondo, i dieci anni di sanzioni senza denti, il rischio che lo stato più criminale della storia dopo la Germania nazista si impossessi di un’arma definitiva e ricattatoria per il mondo intero. E che Israele, che esso dichiara ogni giorno di volere fare a pezzi venga distrutto, mentre il Medio oriente si nuclearizza tutto intero.
È il tempo delle decisioni, ha detto triste e deciso Netanyahu: «Non lascerò mai che il mio popolo viva sotto la minaccia dell’annichilimento, il nostro destino deve restare interamente nelle mani del nostro popolo, siamo padroni della nostra vita che abbiamo diritto di difendere».
Questo è riuscito a mettere in scena l’Aipac con un fantastico sforzo, dimostrando che gli ebrei americani perlomeno sanno quello che sta accadendo allo Stato ebraico: il rischio di essere distrutto. Alla vigilia del supermartedì in cui l’America decide del candidato repubblicano, gli ebrei americani hanno comunque offerto a Obama un palcoscenico gigantesco per ribadire ciò che tutto il mondo mette continuamente in discussione: la sua simpatia per Israele. Lui l’ha raccontata in lungo e in largo mentre il pubblico applaudiva, certo non immemore del fatto che Obama non ha ancora mai visitato Israele nonostante sia stato al Cairo e in Turchia, nonostante le sue dichiarazioni di fiducia a leader come Erdogan che odiano Israele, o delle sue vecchie aperture ad Assad. Obama ha vantato il suo grande contributo alla sicurezza israeliana, ma si tratta di un vecchio piano settennale firmato da George W Bush: invece il congelamento delle costruzioni nei territori, invenzione tutta sua, è stato un pedaggio richiesto, ottenuto nel 2010 e mai retribuito.
Pazienza.
Oggi è buon giuoco di Bibi accogliere le dichiarazioni di amicizia invincibile di Obama, perché i repubblicani non hanno, sembrerebbe, nessuna alternativa attendibile. Obama ha detto che con l’Iran tutto è possibile, che bisogna parlare tenendo in mano un grande bastone. Se intenda usarlo, non l’ha promesso all’arena rutilante in cui il rosso e il blu e il bianco e il celeste delle due bandiere si intrecciavano in magnifici fregi, grandiosi come sanno fare a Washington. In Israele c’è un detto molto comune: «Questo è quello che c’è, e con questo bisogna vincere». Bibi non se lo è certo dimenticato.

 
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