venerdì 3 febbraio 2012

Iran tra sanzioni e minacce


TAMBURI DI GUERRA E RISCALDAMENTO DEI MOTORI DEGLI AEREI SUPER SOFISTICATI CHE ESCLUDONO LA VOLONTA' DEL POPOLO IRANIANO: "CAMBIARE RADICALMENTE E TOTALMENTE IL REGIME TERRORISTA E DISUMANO DEI MULLAH CON LE PROPRIE MANI"!

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di Michele Paris 
L’escalation di minacce e intimidazioni da parte americana verso l’Iran sembra non conoscere alcuna tregua in queste prime settimane del nuovo anno. Alle misure già adottate di recente, il Congresso di Washington sta infatti per aggiungere una nuova serie di sanzioni economiche che, se implementate, produrrebbero effetti ancora più disastrosi per la Repubblica Islamica. Parallelamente, da Israele continuano a giungere preoccupanti segnali di una possibile aggressione militare preventiva contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze potenzialmente rovinose per la stabilità dell’intero Medio Oriente.
Il nuovo round della guerra economica lanciata contro Teheran è andato in scena qualche giorno fa alla commissione del Senato americano con competenza sulle questioni bancarie, la quale ha approvato all’unanimità un provvedimento per imporre l’espulsione dell’Iran dalla rete mondiale interbancaria SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication). La misura impedirebbe di fatto all’Iran di ricevere quotidianamente miliardi di dollari in entrate dall’estero, trasferiti al sistema bancario locale tramite questo network.
Le nuove sanzioni andrebbero ad aggiungersi a quelle firmate da Obama il 31 dicembre scorso e che penalizzano tutte le istituzioni pubbliche e private che fanno affari con la Banca Centrale iraniana. Pochi giorni fa, inoltre, anche l’Unione Europea aveva preso una propria iniziativa, imponendo un embargo sul petrolio proveniente dall’Iran che entrerà in vigore definitivamente il primo luglio.
Il Congresso americano, fortemente influenzato dalle lobby israeliane di estrema destra, ha così mostrato nuovamente di non nutrire alcuno scrupolo nel suo tentativo di spingere l’Iran verso un cambiamento di regime. A promuovere la più recente misura punitiva, tuttavia, è stata in particolare l’organizzazione legata agli ambienti neo-con, United Against Iran, la quale da tempo funge da mezzo di diffusione di propaganda e menzogne contro l’Iran con il pretesto di impedire a Teheran di giungere a costruire un ordigno nucleare.
Per il suo presidente, Mark D. Wallace (già ambasciatore presso l’ONU per l’amministrazione di George W. Bush, nonché membro del team legale dell’ex presidente repubblicano durante il riconteggio delle elezioni presidenziali del 2000 in Florida), la SWIFT starebbe peraltro contravvenendo da qualche tempo ad altre sanzioni già approvate contro l’Iran e perciò sarebbe necessario che interrompesse ogni legame d’affari con Teheran.
La legge in discussione a Washington - Iran Sanctions, Accountability and Human Rights Act -passerà ora all’esame dell’aula del Senato, dove dovrebbe essere approvata senza difficoltà. Oltre a costringere la società con sede a Bruxelles ad escludere l’Iran dalla sua rete interbancaria, sono previste anche altre sanzioni. Tra di esse spicca l’obbligo per tutte le compagnie quotate nella borsa americana di rivelare qualsiasi legame con aziende o individui iraniani sulla lista nera di Washington e il divieto di rilasciare visti d’ingresso per quegli studenti iraniani che intendono intraprendere negli USA un percorso di studi nell’ambito energetico.
Nonostante le incessanti pressioni, il governo di Teheran continua ad alternare dure risposte alle provocazioni con segnali distensivi. Qualche giorno fa l’Iran ha ad esempio ospitato una delegazione di ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), mentre ha più volte manifestato la disponibilità a riaprire i colloqui sulla questione del nucleare.
Se gli Stati Uniti sono dunque ufficialmente in prima linea sul fronte delle sanzioni, è invece Israele che alimenta le speculazioni su un possibile imminente attacco preventivo in territorio iraniano. Venerdì, il Washington Post ha riportato i timori espressi anche dal governo americano per un’eventuale azione unilaterale israeliana che potrebbe scatenare un conflitto ben più ampio nella regione. Nel corso di un meeting NATO a Bruxelles, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, giovedì ha infatti dichiarato che “Israele sta prendendo in considerazione un attacco mentre noi abbiamo manifestato le nostre preoccupazioni”.
Le più recenti apprensioni sarebbero state provocate dalle parole del Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, in una conferenza nella città costiera di Herzliya. Per l’ex leader laburista il tempo a disposizione per impedire all’Iran di produrre un’arma atomica sta scadendo, dal momento che il regime sta trasferendo le attrezzature relative al proprio programma nucleare in una struttura-bunker presso la località di Qom. Chiudendo il suo intervento di fronte ai vertici militari e dell’intelligence, Barak sarebbe poi passato significativamente dalla lingua ebraica all’inglese, ammonendo che “più tardi è troppo tardi”. Una frase che rappresenta con ogni probabilità un messaggio non troppo velato a quanti, soprattutto a Washington, chiedono a Israele di avere pazienza e di aspettare gli effetti delle sanzioni.
Inoltre, il recente rinvio dell’esercitazione congiunta tra militari americani e israeliani (“Austere Challenge 12”), inizialmente prevista per il mese di aprile, secondo alcuni non sarebbe stato un segnale per stemperare la tensione con l’Iran., bensì una prova stessa delle intenzioni di Tel Aviv di attaccare in primavera o all’inizio dell’estate. Il governo israeliano, infatti, avrebbe chiesto di spostare l’esercitazione perché essa avrebbe sottratto alle proprie forze armate risorse importanti da impiegare in un’operazione militare contro la Repubblica Islamica.
La contrarietà americana pare essere stata esposta direttamente al premier Netanyahu e allo stesso Barak dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey. Il 20 gennaio scorso, quest’ultimo avrebbe riferito al governo israeliano che gli Stati Uniti non prenderanno parte ad una guerra contro l’Iran scatenata da Tel Aviv senza l’OK di Washington. In precedenza, anche il numero uno del Pentagono in un’intervista alla CBS aveva affermato che, in caso di attacco israeliano, gli USA si dedicherebbero esclusivamente a proteggere le proprie forze armate da eventuali ritorsioni da parte iraniana.
Il governo israeliano non sembra comunque scoraggiato dalla riluttanza americana e, anzi, sono in molti a sostenere che il governo di estrema destra guidato da Netanyahu voglia deliberatamente provocare frizioni con l’amministrazione Obama per mettere sotto pressione la Casa Bianca durante il periodo elettorale e ottenere il via libera all’attacco militare nei prossimi mesi.
Israele, d’altra parte, non sembra temere particolarmente la reazione di Teheran, ricordando agli alleati americani come un attacco simile contro un reattore nucleare in Siria nel 2007 non provocò alcuna rappresaglia. Secondo l’opinionista delWashington Post vicino agli ambienti d’intelligence a stelle e strisce, David Ignatius, calcolando eventuali razzi lanciati dall’Iran e da Hezbollah in Libano, Israele stima di dover “assorbire” non più di 500 vittime.
Per lo stesso Ignatius, il quale avanza anche l’ipotesi che Tel Aviv veda addirittura positivamente il mancato coinvolgimento americano in un conflitto con l’Iran, il piano di aggressione israeliano prevede una sorta di guerra lampo di pochi giorni con incursioni aeree limitate, seguite da un cessate il fuoco negoziato dall’ONU. Uno scenario, questo, fin troppo ottimistico e che, sovrapponendosi alle tensioni in Siria e agli effetti della Primavera Araba, quanto meno solleva più di una perplessità.
Anche se il messaggio trasmesso dagli USA a Israele appare insolito, l’amministrazione Obama e il complesso militare americano non sembrano in realtà nutrire particolari scrupoli per un’azione militare contro l’Iran. I vertici del governo e delle forze armate continuano infatti a sostenere che nei confronti della Repubblica Islamica ogni “opzione rimane sul tavolo”, mentre nelle ultime settimane la presenza militare americana nel Golfo Persico è notevolmente aumentata in vista di un possibile conflitto.
Quello che Washington non desidera è un attacco preventivo, perché estremamente impopolare. Piuttosto, un eventuale intervento armato dovrebbe essere legittimato da un casus belli, fornito dalla reazione di Teheran ad una delle svariate provocazioni che gli Stati Uniti e i loro alleati stanno mettendo in atto da tempo. In alternativa, la Casa Bianca continua a puntare su sanzioni punitive che colpiscono l’economia iraniana e indeboliscono il regime.
Nel frattempo, la propaganda anti-iraniana prosegue senza sosta. Qualche giorno fa, il capo dell’intelligence statunitense, James Clapper, nel corso di un’audizione al Congresso, senza presentare alcuna prova, ha espresso timori per la possibilità che l’Iran possa pianificare attentati terroristici sul territorio americano.
Venerdì, infine, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo dal titolo “Gli USA temono legami dell’Iran con Al-Qaeda”, secondo il quale Teheran avrebbe recentemente liberato e fornito un qualche appoggio materiale a cinque membri di alto livello appartenenti all’organizzazione che fu di Osama bin Laden e che erano agli arresti domiciliari fin dal 2003. Il pezzo, che considera solo sommariamente le note differenze strategiche tra l’Iran sciita e il radicalismo sunnita di Al-Qaeda, fa parte della campagna diffamatoria in atto da tempo nei confronti di questo paese, così da preparare l’opinione pubblica internazionale alle prossime azioni volte a provocare la caduta di un regime sempre meno gradito.

 
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