Ora è chiaro a tutti: è la jihad che dominerà il «nuovo» Egitto
Il Giornale, 4 dicembre 2011
On. Fiamma Nirenstein, vice presidente della Commissione esteri della Camera
L’aria della vittoria degli islamisti della Fratellanza musulmana e del partito Al Nour, ancora più islamico, si respira già in Egitto. E puzza di bruciato. Il sessanta per cento sembra confermato, forse di più, e alla seconda tornata si prevede un’ulteriore baldanzosa crescita. L’allarme è grande: una fonte del Consiglio militare supremo ha detto al giornale Al Hayat, e certo non gli ha raccomandato di tenere il segreto, che un’eccessiva vittoria islamista «renderebbe arduo il ruolo di garanzia dell’esercito», e che più di due terzi di islamisti in parlamento abolirebbero gli articoli della Costituzione che salvaguardano la laicità del Paese.
Le forze sfibrate della parte laica che per ora non vanno oltre il venti per cento; i giovani bloggers che si battono sui social network per rispondere all’aria che spira da dichiarazioni come quella trionfante e minacciosa di Abdel Monem al Shahhat, un leader salafita che ha dichiarato che lo scrittore premio Nobel Naguib Mahfuz era un corruttore della gioventù, cantore di bordelli e di droga. Di tono analogo, stavolta sul futuro dell’Egitto, che deve abolire ogni occasione di incontro fra i due sessi se non sono sposati, cancellare l’alcool, la musica e quant’altro, le esternazioni di un altro leader Hazem Abu Ismail, cui hanno risposto una quantità di pigolii scandalizzati da twitter. Vedremo se tali sono destinati a restare. O se l’esercito sceglierà lo scontro. Ma all’orizzonte baluginano grandi tuoni con cui noi occidentali dovremo fare i conti: il Medio Oriente è oggi un oggetto misterioso, incandescente, completamente diverso da quello che abbiamo conosciuto.
Bene, abbiamo capito che ovunque l’eruzione si presenti, alla fine la lava somiglia molto alla jihad. Ce n’è voluta, ma ci siamo arrivati. Ancora però non abbiamo capito che tutto è cambiato dentro la sfera islamica. Prima sono andati giù i tiranni più amichevoli verso l’Occidente, Ben Alì e Mubarak. Durante la Guerra Fredda contro di loro si ergeva il famoso «asse della Muqawama», della Resistenza. Questo gruppo, capitanato dall’Iran, con a fianco la Siria, gli Hezbollah che controllavano il Libano, Hamas che pensava allo scontro duro con Israele, collateralmente la Libia, è stato molto contento, e ha pensato che l’egemonia sulle rivoluzioni fosse assicurata. Ne ha dati molti segni, basta leggere i discorsi di Ahmadinejad, di sostegno peloso al popolo arabo dopo che lui aveva massacrato il suo in piazza; o di Assad, quando disse che la Siria non avrebbe avuto una rivolta perché i suoi interessi erano gli stessi del suo popolo, combattere Israele e l’Occidente. La Turchia, non possiamo ignorarlo, pure in una posizione da zio nobile, ha fatto parecchi passi verso l’asse per poi recederne. Intanto l’Iran costruiva la bomba, sicuro della sua impunità.
Poi, le cose sono cambiate: l’anello debole è la Siria, ma anche le rivelazione dell’Aiea sul nucleare iraniano costruito per la guerra, hanno creato la svolta. Il blocco si è sfasciata. Assad ha fatto in 8 mesi 4.800 morti; Ahmadinejad manda aiuti militari ad Assad, cosa poco onorevole, mentre a casa sua le strutture nucleari vengono attaccate variamente; Hamas sta cambiando padrone, perché i suoi padroni sciiti aiutano Assad contro la Fratellanza musulmana di cui Hamas fa parte; Hezbollah che sta perdendo in Siria è nei guai. Qualche giorno fa a Tripoli del Libano si è svolto un rally sunnita capeggiato da Said Hariri, ex primo ministro. Il blocco della resistenza ha il suo daffare, è spezzettato e debole. Incerti e fragili anche tutti i paesi che non sanno altro che mostrarci il loro versante islamico, non sanno come gestirlo con l’Occidente, fanno i moderati e chiedono aiuto per lo sviluppo. Quanta politica si può fare oggi, da parte nostra, per spingere verso un mondo migliore. Ora, o mai più.