martedì 26 maggio 2009

UN INTERESSANTE ARTICOLO PUBBLICATO SUL GIORNALE METRO





Il tempo è il nemico numero uno del Campo di Ashraf, a nord-est di Baghdad e a 70 km dal confine iraniano. Il secondo è l’indifferenza internazionale. Ogni giorno che passa per i 3.500 iraniani che ci vivono da oltre due decenni la sicurezza è sempre più a rischio. Non ci sono bambini, né famiglie, solo lavoratori, uomini e donne membri dell’Organizzazione dei Mojahedin del popolo iraniano (Pmoi), che dedicano la loro vita alla resistenza e all’opposizione del regime iraniano. «Il Pmoi si trasferì in Iraq nel 1986 - spiega Mahmoud Hakamian, del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri) - in base ad un accordo ufficiale con il governo iracheno che prevedeva l’indipendenza ideologica e politica così come la libertà di movimento e di azione. Il campo è sempre stato autosufficiente, anche grazie agli aiuti che arrivavano dagli iraniani emigrati in tutto il mondo». Ma oggi è tutto cambiato: «All’inizio del 2009 l’amministrazione del Campo è stata trasferita dagli Usa (che l’avevano dal 2003, anno in cui i mojahedin avevano consegnato tutte le armi) all’Iraq - spiega Hakamian - Non è un segreto che nell’attuale governo iracheno ci siano molti esponenti filoiraniani. E infatti l’Iraq ha comunicato di volere chiudere il Campo di Ashraf. Cosa ne sarà dei suoi abitanti? Se dovessero tornare in Iran, sarebbero subito arrestati, torturati o uccisi». Già da ora, anche se è rimasto un presidio degli Stati Uniti, ai residenti è impedito di uscire e di recarsi negli ospedali. Le restrizioni sono sempre maggiori, anche per il trasferimento di beni e servizi, come cibo e medicine. Per questo Maryam Rajavi, presidente del Cnri, ha rivolto un appello al presidente degli Usa Obama affinché intervenga. (VALERIA BOBBI)

 
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