venerdì 25 gennaio 2008

UN ITERESSANTE ARTICOLO DI LUCIO CARACCIOLO SULL'ESPRESSO: PIU' GUERRA CHE PACE


OPINIONI - ESPRESSO
di LUCIO CARACCIOLO
L'Iran è oggi più che mai la principale potenza del Medio Oriente. Non era certo questo lo scenario che George W. Bush immaginava, quando oltre sei anni fa lanciò gli Stati Uniti nella 'guerra globale al terrorismo'. Ma la liquidazione (provvisoria?) dei talebani e poi di Saddam, spazzando via i due principali nemici degli ayatollah, ha cambiato a favore dell'Iran gli equilibri regionali. Certo, ora l'America è insediata, con le sue basi e la crema delle sue Forze armate, in Iraq e in Afghanistan, così stringendo Teheran in una tenaglia. Tuttavia gli americani hanno già enormi difficoltà a gestire quei due teatri di guerra, e non potranno restarvi in eterno.

Prima o poi, Iran e Stati Uniti dovranno quindi scegliere: o la guerra, quella decisiva per il futuro assetto del Golfo e dell'intero Medio Oriente, o la pace, ossia un grande, pragmatico compromesso che bilanci gli interessi americani e iraniani nella regione.

Fino alla pubblicazione del rapporto delle agenzie di intelligence americane (3-12-2007), secondo il quale il regime degli ayatollah avrebbe sospeso il programma atomico militare nel 2003, il barometro tendeva verso la guerra. Cioè verso una spedizione punitiva aeronavale a stelle e strisce, che avrebbe dovuto azzerare per molti anni non solo i siti nucleari, ma l'intera struttura militare ed economica persiana. Qel documento ha invece segnato la sconfitta dell'ala bellicista dell'amministrazione Bush, incarnata dal vicepresidente Cheney, ad opera del partito che punta su una diplomazia muscolare, guidato dal Pentagono e dal dipartimento di Stato. I vertici americani hanno pesato rischi e vantaggi dell'opzione militare, e hanno stabilito che i primi sono assai più concreti dei secondi. E stavolta i servizi segreti hanno fatto sapere di non essere disposti a coprire operazioni decise altrove, a prescindere dalle informazioni e dalle analisi da loro fornite.


Si è così aperta una piccola finestra di opportunità, utile forse per un anno e mezzo: il tempo perché Bush lasci la Casa Bianca e il suo successore prenda in mano il dossier persiano e tragga le sue conclusioni. Finora, però, non sembra che la possibilità di un negoziato complessivo e diretto Usa-Iran sia presa in seria considerazione, né da una parte né dall'altra. Le due leadership politiche appaiono troppo deboli e divise per osare il grande compromesso. In campo iraniano si attende il verdetto delle elezioni parlamentari di marzo, che potrebbero segnare una sconfitta per Ahmadinejad e per l'ala più irrazionale del regime, a vantaggio dei conservatori pragmatici di Rafsanjani e di ciò che resta dei riformisti di Khatami.

Ma il tempo non lavora per la pace. In un clima di incertezza e sospetti reciproci, con Israele che non crede alla Cia e si riserva il diritto di colpire l'Iran, e nella prospettiva di nuove e più dure sanzioni occidentali contro il regime di Teheran, basta il fuoco di un fiammifero per appiccare un incendio devastante. Il recente incidente nello stretto di Hormuz valga da monito. Specie se a provocarlo è stata qualche unità particolarmente fanatica dei pasdaran, senza il normale avallo gerarchico. Spesso le guerre scoppiano per caso, senza che nessuno lo voglia fino in fondo. Fra nemici, se non si fa la pace, la guerra è questione di tempo.

 
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